L’Imperia

L’Imperia

“Gli anolini non sono mica roba da tutti i giorni vè…”

Mi ricordo ancora quando un po’ schizzinosa ne avevo rifiutato un piatto per un pranzo di Natale e mia nonna mi aveva ripreso.

In realtà avevo solo un po’ di magone perchè mia madre mi aveva appena dato uno scapaccione per qualche motivo.

Dopo aver mangiato i miei venti anolini avevo tirato su col naso e avevo chiesto come mai non era roba da tutti i giorni se, bene o male, li mangiavamo tutte le domeniche o quando c’era il brodo buono in terza.

“Adesso che ci sono tanti soldi in giro sembra un piatto normale, ma una volta quando anche il formaggio era un lusso, fare il ripieno costava tanto. Non parliamo poi del brodo in terza: un cappone, della doppia o della punta di manzo, le costine di maiale e un paio di salami da cotta, il sedano, la carota, la cipolla, il ripieno per il cappone, e le croste del formaggio.

Una volta si mangiavano gli anolini solo per Natale, per Pasqua e per la fiera, mica come adesso. Andava appena appena bene se c’era la pasta sporca…”

E io giù ad immaginare strati di pasta sporcata col fango o con qualche altra porcheria.

Poi mia madre mi aveva spiegato che la pasta sporca non era altro che la sfoglia spennellata col ripieno per immaginarne almeno il sapore.

Una grossa difficoltà era stata quella di mettere d’accordo la famiglia di mia nonna, salde radici nella bassa parmense, con quella di mio nonno con discendenti bresciani, cremonesi e piacentini.

Il ripieno classico della bassa era ben codificato da immutabili dettami: parmigiano di due invecchiamenti, pangrattato scottato col brodo buono, uova, un pizzico di sale e di noce moscata.

Dall’altra sponda (del Po e dell’Ongina) invece si usava il grana padano e si aggiungeva un bel po’ di luganega macinata fine fine.

A dirimere la diatriba, come sempre, era arrivata la pacatezza e la lungimiranza di mia bisnonna che ad ogni festa comandata preparava entrambi i tipi di anolini usando lo stampo liscio per quelli di formaggio e lo stampo seghettato per quelli di luganega, così andava a finire che i parenti mangiavano un po’ degli uni e un po’ degli altri.

Poi non capivo bene la faccenda del brodo IN terza quando gli altri miei amici lo chiamavano tutti DI terza come se parlassero delle classi delle elementari, allora mia madre mi aveva spiegato che il brodo IN terza era ritenuto il brodo delle grandi occasioni, così come era ritenuta delle grandi occasioni la messa detta IN terza celebrata con tre sacerdoti dalla quale era stato mutuato il nome.

Poi mio nonno se ne usciva con qualche frase del tipo: ecco i preti mi fanno andare di traverso anche gli anolini… Sua madre, al contrario recitava il rosario tutte le sere.

Mia bisnonna, la nonna vecchia come la chiamavo io senza farle troppo piacere, è morta a novantatreanni che infilava ancora il filo nell’ago senza occhiali, non aveva mai visto il mare e non si era mai tagliata i capelli in vita sua.

Uno degli ultimi ricordi che ho di lei è di quando le abbiamo fatto vedere una fotografia scattata qualche giorno prima. In quell’occasione si erano messe in posa le quattro generazioni: io, mia madre e mio nonno intorno al letto della nonna vecchia, un mucchietto di ossa tenuto insieme da pelle sottile e morbida e avvolto in uno scialle di quelli che faceva lei, al telaio, nelle lunghe sere d’inverno che si passavano in campagna.

Le avevamo fatto vedere la foto e lei con la sua solita pacatezza, probabilmente data dalla lunga infermità nel letto, aveva elencato: “Questa è la Rosalba, questa la Villiana, questo è Giulio e questa qui non so chi sia ma ha un cerchietto uguale al mio”. Ovviamente stava parlando di se stessa ma negli occhi della memoria aveva un’immagine di almeno dieci anni più giovane, l’ultima volta che si era guardata allo specchio.

Della nonna vecchia ricordo poche cose, perchè quando una persona è sempre lì non le dai poi tutta questa importanza e ti rendi conto di quanto ti manca quando non c’è più.

Per esempio faccio fatica a ricordare come si chiamasse in realtà, in fin dei conti è sempre e solo stata la nonna vecchia, vedova a ventisette anni con tre figli piccoli e con la mamma cieca da accudire, donna minuta e straordinariamente moderna. Forse è per questo che diceva il rosario tutte le sere, per trovare la forza di affrontare il giorno successivo con le sue esili spalle.

Diceva sempre: “La mia vita è stata lunga e la mia migliore amica è stata l’Imperia”.

Io, però, questa Imperia non l’ho mai conosciuta.

Ho ripensato anni dopo a questa frase ricorrente, quando ho cominciato ad interessarmi della storia della mia famiglia. Ho chiesto un po’ in giro agli zii e al nonno, a mia madre, a chi insomma avesse un po’ di memoria storica. Erano tutti concordi nel dire che era stata una gran cuoca, ma che non aveva mai messo nero su bianco le sue ricette che erano così svanite come la sua anima. Ah quelle sprelle morbide, la salsa della domenica e quelle patate cotte nella cenere, ah quei tortelli.

Succedeva di fare assaggiare i propri dolci perchè li si portava tutti al forno pubblico della piccola frazione e si facevano cuocere tutti insieme. In un cortile di quattro case dove adesso abitano si e no tre persone, allora ce n’erano più di venti.

A tal proposito uno degli aneddoti più ricorrenti è quello di una vicina di casa un po’ pettegola che aveva chiesto a mia nonna cosa mettesse sua suocera nei tortelli per renderli così buoni. Mia nonna, appena sposata e ancora inesperta delle regole del vicinato, aveva risposto che pensava che il segreto stesse nel fatto che al posto del burro ci mettesse lo strutto. Il burro era una roba da ricchi ma per una famiglia povera lo strutto era abbastanza comune. La vicina aveva continuato a fare i complimenti a mia nonna poi, appena girato l’angolo, era andata a spettegolare sul fatto: “ Pensa, diceva a tutti, son tanto tirati che non spendono nemmeno per il burro, e poi ci offrono i tortelli fatti con lo strutto…”

La nonna vecchia aveva sentito il discorso da dietro le imposte e se n’era rimasta in silenzio.

Qualche giorno avanti, mentre si lavavano le lenzuola nell’aia, davanti a tutti gli abitanti della corte e dopo parecchie lusinghe, la vicina aveva detto a mia bisnonna: “ Maria, dite un po’, ma in quei tortelli di pasta frolla, con la marmellata brusca di cornaline, qual’è il vostro ingrediente segreto? Cosa ci mettete mai dentro?”

E la Maria, che in realtà si chiamava De Giovanni Pierina, classe 1901, aveva risposto pacatamente:

“Un po’ di fondo di cesso…” e se ne era tornata in casa lasciando tutti a bocca aperta. Nessuno più osò criticare la sua cucina povera ma gustosa.

Sempre alla ricerca di notizie della nonna e di questa Imperia, un giorno mi è capitato di leggere il testamento di Giuseppe Verdi, la bisnonna abitava da sempre a duecento metri dalla villa del grande musicista, e una postilla era dedicata ai poveri di Sant’Agata. Verdi era morto nel 1901, mia nonna si era sposata nel 1923 ma contando che ancora al giorno d’oggi l’ospedale di Villanova da lui fondato si sostenta coi suoi soldi, pensavo che forse la nonna vecchia aveva usufruito del lascito.

Il comune di Villanova doveva versare venti lire alle donne di Sant’Agata che si fossero sposate ma solo dopo nove mesi dalle nozze a patto che non avessero avuto figli, vale a dire che non dovevano essersi sposate incinte. La cosa mi aveva fatto sorridere. Nel 1923? Poi mia madre mi disse che la nonna vecchia si era proprio sposata già in attesa di mio zio, succube di un marito disgraziato che verso la fine del 1927 era caduto da una pianta, il quale era morto dopo qualche mese di agonia all’ospedale di Fiorenzuola. Mia bisnonna si era fatta quasi tutti i giorni il tragitto di venti chilometri andare e tornare che la separava dall’ospedale, prima con mio nonno nella pancia e poi con mio nonno in una cesta, aveva accudito l’odiato consorte, gli aveva fatto il funerale e poi non aveva più voluto sapere nulla di dove l’avessero messo.

Dal giorno dopo del funerale aveva iniziato a dire il rosario tutto le sere: per ringraziare il signore di averla liberata da quel fardello. Ora lo so.

Poi ho trovato anche l’Imperia.

Mi è bastato vedere un film: Quarto potere di Orson Wells. E ho cominciato a credere che la ricerca di Rosabella, Rosebud nella versione originale, fosse molto simile alla mia.

Allora sono andata nella casa disabitata che un tempo era stata della nonna vecchia e che ora tutta la famiglia usava solamente per fare stagionare i salumi. C’era ancora una vecchia credenza, una moscarola e una bicicletta cò pé, che in italiano bisognerebbe tradurre in scaravoltata ma vuoi mettere la schiettezza del dialetto?

Nella credenza c’era una scatola di dosi Bertolini con una Maria Rosa un po’ arruginita con dentro alcune vecchie foto, l’unica di mio bisnonno, un mattarello mangiato dalle tarme e una tavella per la misurazione dei terreni con la scritta Decametro.

I cassetti erano foderati con della carta smangiata col giglio di Firenze, forse una volta di colore giallo, ora tutto tendente al ruggine, e strappandone un lembo ho trovato un piccolo ricettario scritto a mano da De Giovanni Pierina.

Dietro ad un antino sbilenco troneggiava l’Imperia: la macchina della pasta che la nonna vecchia aveva comperato nel 1933 con l’indennità ricevuta per il marito defunto. Dagli ingranaggi di quella macchina era passata tutta la sfoglia per gli anolini, i tortelli, i malfatti, le tagliatelle, gli stringón che avevano nutrito la nostra famiglia, le nostre famiglie, i vicini e i signori per i quali la nonna lavorava d’inverno. Quanti colpi di manovella avrà dato in cinquant’anni di lavoro? Quante uova schiuse e mucchi di farina a fontana? Quante vesciche fra indice e pollice dove si afferra lo stampo di legno e ottone… Quante Pasque, quanti Natali, compleanni e anniversari. Figli, nipoti e pronipoti, e amici, e vita.

Già, raccontare una vita normale come mille altre, in poche pagine, non è semplice, soprattutto quando non c’è avventura, non c’è una morale, non ci sono super eroi.

Vorrei quindi finire il racconto della lunga vita di mia bisnonna semplicemente con alcune ricette che aveva nascosto così gelosamente, forse le faccio un torto, forse la renderò immortale.

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